Pitch class set e M7

La teoria delle classi di altezze nasce nel secondo dopoguerra negli Stati Uniti in particolare ad opera del compositore Milton Babbit e del musicologo Allen Forte.

Particolarmente diffusa nel mondo della contemporanea d’oltreoceano non ha trovato grande diffusione nella musica europea salvo qualche eccezione (ad es le sperimentazioni di Luigi Nono) e applicazioni indirizzate alla ricerca dell’ IRCAM.

Questo modello di analisi non determina tanto un’estetica, ma rappresenta uno strumento di analisi per tutto il materiale atonale con propensione all’utilizzo di tecniche quali inversione, moltiplicazione, trasposizione, contiguità, combinatorietà, complementarietà.

Nell’analisi di un insieme di altezze mod 12 si attribuiscono di fatto i numeri interi da 0 a 11 ai nomi delle note della scala cromatica ascendente partendo dalla nota do.

Applicando i principi della teoria degli insiemi si creano delle classi di altezze che vengono siglate attraverso un numero x-y dove x è il numero delle altezze utilizzate e y l’ordine crescente con cui sono categorizzate.

La forma di ciascun insieme è determinata dalla disposizione in ordine crescente delle altezze delle note che la comprendono, e può essere trasformata in una forma primaria che origina sempre da zero, nota do, a 11, nota si.

Un altro strumento utile è il vettore intervallare che è rappresentato dal numero delle qualità di diversi intervalli che si ottiene da tutte le possibili combinazioni tra le altezze e che determina quindi la natura combinatoria di ciascun insieme.

Da notare che per ottenere un numero limitato di forme primarie si considerano gli intervalli dal semitono al tritono identici ai loro reciproci dal tritono alla settima maggiore.

Ad es. la triade maggiore e minore e tutti i loro rivolti appartengono allo stesso set classificato come 3-11, con forma primaria (0,3,7) do-mib-sol, e vettore intervallare [001110], ovvero, nell’ordine zero semitoni, zero toni, una terza minore, una terza maggiore, una quarta, nessun tritono.

Possiamo forse, dopo più di mezzo secolo, considerare questa esperienza di ricerca un tentativo enciclopedico di comprendere la totalità delle combinazioni delle diverse altezze in modulo 12 e di analizzarne attributi e qualità.

Nel jazz troviamo traccia dell’utilizzo di questo sistema tanto nelle dissertazioni on-line (vedi sito M-Base: https://m-base.com/what-is-m-base/) quanto in molte composizioni e improvvisazioni di Steve Coleman, in particolare per quel che riguarda principi di sum, simmetria e armonia negativa.

Ad es. qui a proposito della composizione Cross Fade, tratta dall’album del 1990 dal titolo Black Science che suona come una vera e propria “dichiarazione programmatica”:

“Melodically and harmonically the concept of “Cross-Fade” deals with tonal  deals in key centers). In other words, what is important here is the position of tones in space or centers in terms of space (asopposed to the standard tonality which distance). So when I speak of improvising with regard to a “sum 1I tonal center” I am speaking of a tonality that has an axis (or spatial center) of sum
means that the tones B-C (also F-G flat) are the spatial tonal centers of this section 

of the composition. For the improviser this means improvising with this spatial tonality in mind. To go into some examples of improvising in a “sum 11” tonality is beyond the scope of this presentation and any [sic] would take many chapters. I do plan on releasing a small book on the subject later but I can say that one necessity would be learning to think spacially with the mind as well as using your ears. 

Da queste parole di Coleman, oltre ad un parziale chiarimento sul termine Sum e Axis [di simmetria], troviamo quanto detto in precedenza riguardo al tipo di processo di apprendimento che richiedono queste tecniche, non solo da un punto di vista logico, ma da quello dell’assimilazione, per nulla facile, dal momento che costringe a reinventare l’abitudine dell’ascolto attraverso la prassi esecutiva.

Dall’interessante testo “Playing outside : excursions from the tonality in jazz improvisation ” di Tim Dean Lewis per la City University of London troviamo un’accurata analisi del brano Cross Fade, che supporta l’ipotesi riguardo l’influenza del serialismo americano sulla musica di Steve Coleman.

Further, it has struck me that there is a similarity between the “Sum ‘ system and the theories of Perle (1977), both in terms of structure and nomenclature (although I do not know whether Steve Coleman has been directly influenced by this text)

Sempre sull’argomento Steve Coleman afferma:

“When I play, I’m not thinking scales. A lot of younger players are so locked  into scales that they can’t think of anything else. I’ve often  two modes, major and minor, dominate out of the countless diatonic structures. After studying African, Eastern and Bulgarian folk music. I decided that it wasn’t necessaryto use just major and minor, and consciously abandoned it. Now I’m working with cells. There’s nothing mystic about that – they’re just small musical constructs which I manipulate to get two types of sound motion, stationary and in transit. I’ve also been looking for geometric ways of doing progression rather than thinking in standard terms.”

Interessante osservare qua come teorie di musica e di ricerca contemporanea, cellule e insiemi, si sposino con tradizioni musicali etniche, in una sorta di corto circuito che sembra, apparentemente, relegare in secondo piano  le sonorità della musica europea dal rinascimento ai primi del novecento. Un inaspettato fil rouge tra serialismo e musica africana, tra musica popolare extra-europea e quanto di più razionalmente complesso elaborato nella musica occidentale.

Queste o analoghe indicazioni per determinare insiemi di altezze utilizzate in modo armonico in sostituzione delle classiche sigle sono usate talvolta da molti musicisti afferenti all’M-Base come Miles Okazaki, Jonathan Finlayson e Jen Shyu.

L’analisi attraverso classi di insiemi di altezze consente di evidenziare le caratteristiche e le proprietà di gruppi di note che non hanno un corrispettivo evidente all’interno dell’armonia tradizionale di tipo funzionale.

A mio parere molto materiale anche della tradizione jazzistica può così essere meglio decifrato, sd es. voicing e pattern.

La mia prima composizione scritta utilizzando queste nozioni, è stata “Spazio Angusto”

Il titolo nasce dalle caratteristiche del materiale musicale utilizzato: quattro insiemi di tre note ciascuno, insiemi semplici costruiti sulle prime combinazioni di piccoli intervalli, seconda maggiore e minore e terza maggiore, quindi uno spazio intervallare limitato e apparentemente limitante:

F#, G, Ab

A, Bb, C

Ab, Bb, B

F, Gb, A

Il primo, insieme 3-1, è costituito da una successione a distanza di semitoni.



Il secondo e il terzo hanno un tono e un semitono disposti in ordine inverso, ma nonostante questa apparente diversità appartengono alla stesso gruppo, il 3-2, che ha come vettore intervallare 1,1,1,0,0,0.

Il quarto che contiene un semitono e una terza minore è il 3-3.

La prima sezione si sviluppa melodicamente con vibrafono, sax e basso che suonano coralmente la melodia ricavata dall’utilizzo esclusivo delle note dell’insieme.

I quattro insiemi sono utilizzati e suddivisi in blocchi di due battute ciascuno. Il materiale di ciascun insieme è utilizzato in modo seriale: ogni nota di ciascun insieme è presente, con l’avvertenza di evitare la ripetizione della stessa all’interno di un singolo blocco, in modo da un lato di far percepire sempre il colore complessivo degli insiemi, dall’altro di evitare il più possibile una sensazione di tonalità o di predominanza di un’altezza sulle altre.

Vibrafono, sax e basso seguono rigorosamente questa idea come potete vedere alla lettera A della partitura.

Nell’utilizzo delle classi di altezza uno degli strumenti più semplici e interessanti per lo sviluppo melodico è quello del cambio di ottava.

Con insiemi così stretti, che nella loro forma fondamentale si muovono nell’ambito di semitono, tono e terza minore, il cambio di ottava dell’altezza di una nota determina la creazione di salti ampi: settime, seste e none.

Sax alto e basso seguono un movimento contrario in questo senso: dall’alto al basso per il primo e dal basso all’alto per il secondo. Il vibrafono come strumento polifonico sintetizza entrambi questi movimenti.

Il brano è costruito prevalentemente dalla ripetizione di una sezione A di otto misure sviluppata e variata o inframmezzata da sezioni riorchestrate o finalizzate a momenti solistici.

La composizione si sviluppa in modo più o meno rigoroso seguendo questo schema attraverso processi di orchestrazione, ripresa e variazione della sezione A, assoli e variazioni della formula ritmica, fondata anch’essa sulla presenza del numero 3 con un processo che in qualche modo replica l’idea di insieme a livello ritmico, con un contrappunto ritmico tra la linea del basso e il drum chant della batteria.

Un insieme di tre note offre possibilità di sviluppo interessanti, con l’utilizzo del tritono come intervallo traspositore, che trasforma il nostro insieme da 3 a 6 elementi

F# G Ab + C Db D

A Bb C + D# E F#

Ab Bb B + D E F

F Gb A + B C Eb

Gli insiemi di sei note per le loro caratteristiche hanno un ruolo particolare nella musica seriale. Innanzitutto ciascun esacordo ha un insieme complementare di altre sei note che va a completare l’insieme cromatico.

Un’ulteriore possibilità è considerare il tricordo come sottoinsieme di altre scale ( tutte le scale conosciute possono essere considerate insiemi) più familiare e caratteristica.

Il primo insieme di Spazio Angusto infatti può generare una scala cromatica, il secondo e il terzo, con l’inclusione delle note C# e G, due diverse scale diminuite, come l’ultimo con l’inclusione delle note B e F.

Legato al concetto di pitch class quello di deep scale ovvero scale che abbiano un vettore intervallare che consista di valori unici. Questo attributo sembra fornire una grande possibilità di costruzione di sottoinsiemi diversi, e quindi maggiore varietà ad es rispetto a una scala simmetrica. Inoltre queste scale possiedono un’altra proprietà importante, ossia di essere trasponibili per l’intero insieme cromatico con relazioni tra le stesse create da quantità diverse di note comuni.

La più nota tra le deep scale è quella maggiore e l’analisi delle sue proprietà insiemistiche ha fornito alcune ipotesi logico-matematiche sul prevalere di questo sistema nello sviluppo della storia della musica occidentale.

La scala maggiore, insieme 7-11 costituito dalla forma (0,2,4,5,7,9,11), che nella sua forma primaria, in ordine crescente di distanze e intervalli, è (0,1,3,5,6,8,10) possiede vettore intervallare [2 5 4 3 6 1], un valore unico per ogni intervallo, con predominanza dell’intervallo di quarta, reciproco della quinta. Sappiamo che la quinta è elemento fondante di ogni scala maggiore diatonica; una scala maggiore può essere riletta come una successione di questo intervallo ad es, in do maggiore la sequenza sarà fa-do-sol-re-la-mi-si.

Cosa succede ora se con principio isomorfico proviamo a costruire delle nuove scale che abbiano come unità di misura principale non il semitono, ma tutti gli altri intervalli?

Otterremo sempre delle scale non eptafoniche perchè ci sarà sempre una ripetizione di qualche nota, ad eccezione che con l’intervallo di quinta e quarta, che genererà la scala contenuta nell’insieme 7-1 (0,1,2,3,4,5,6) iv [6 5 4 3 2 1] che è l’altra deep scale eptafonica.

Nel far questo non abbiamo altro che applicato una delle proprietà citate all’inizio di questo paragrafo, quella della moltiplicazione, indicata dal simbolo M. Moltiplicando la successione 2,2,1,2,2,2,1 di volta in volta per il numero di semitoni caratterizzante l’intervallo scelto e poi riportando i risultati ottenuti in mod 12, ovvero nella stessa ottava.

L’operazione moltiplicativa più fertile sembra essere quella quindi di M7 (o M5), usata spesso infatti in dodecafonia e serialità insieme a retrogradazione e inversione, per generare serie nuove con un legame di parentela profondo con l’originale.

La natura della relazione stretta tra i due insiemi 7-1 e 7-11 nasce dal fatto che entrambi gli insiemi hanno una stretta correlazione con i due intervalli più generativi, il semitono e la quinta e i loro reciproci ovviamente.

Possiamo quindi costruire accordi e modi sulla scala 7-1 in modo analogo alla scala maggiore e derivare una serie di scale con proprietà affini a quelle della scala maggiore.

Da osservare che le scale simmetriche e i modi a trasposizione limitata rimangono invariati in entrambi gli insiemi. Di seguito la moltiplicazione di alcune delle scale più note:

Per la sua natura il 7-1 possiede caratteristiche di maggior tensione, essendo il cromatismo il valore intervallare predominante rispetto alla quinta del 7-11.

Questa profonda relazione tra i due insiemi può essere a mio parere interessante oltre in ambito atonale anche in quello tonale, proprio perché l’insieme 7-11 possiede esattamente le stesse proprietà di una scala maggiore in termini di sviluppo di modi e accordi.

Ogni melodia costruita in un sistema tonale 7-11 può essere quindi trasformata in una a riferimento cromatico 7-1. L’unica accortezza è quella, rispetto all’operazione moltiplicativa del serialismo, di considerare l’operazione M7 in modo che io definisco relativo, ovvero considerando la

fondamentale del sistema 7-11 la stessa del 7-1. Per cui la fondamentale di ciascun nuovo sistema tonale cromatico va considerata il nostro nuovo valore 0.

Le due scale maggiori sovrapposte sono le seguenti:

7-11: do re mi fa sol la si

7-1: do re mi si do# re# fa

ottenute dalle seguenti operazioni:

7-11: 0 2 4 5 7 9 11

7-11 M7= 0 2 4 11 1 3 5

ovvero:

0x7= 0

2×7= 14 mod12= 2

4×7= 21 mod12= 4

5×7= 35 mod12= 11

7×7= 49 mod12= 1

9×7= 63 mod12= 3

11×7= 77 mod12= 5

Di fatto, in modulo 12, tutte le distanze pari rimangono invariate mentre quelle dispari si invertono in modo costante a distanza di tritono. il tetracordo fa-sol-la-si diventa in M7 si-do#-re#-fa.

Interessante notare l’affinità di questi risultati con quella che in armonia si chiama la sostituzione di tritono, che sembra essere basata sulla stessa proprietà matematica.

Possiamo quindi traslare in M7 relativo tutte le composizioni tonali, di seguito alcuni esempi che ho elaborato dai temi di “Donna Lee”, “Lennies Pennie’s” e il noto solo di Lester Young su “Oh, Lady be Good”.

In queste nuove melodie si manifestano degli aspetti interessanti con alcune figure ricorrenti:

  • gli intervalli di quarta/quinta diventano semitoni ascendenti o discendenti e viceversa, con un evidente riflesso da un lato su tutti i passaggi cromatici e dall’altro su tutte le progressioni per quinte
  • ogni terza maggiore rimane ascendente mentre la terza minore diventa discendente, analogamente con quanto avviene nell’armonia negativa
  • la quinta di una scala maggiore diviene il suo tritono
  • la sesta giusta di una scala maggiore diviene la terza minore
  • la quarta di una scala maggiore diviene la settima maggiore e viceversa

In generale, e forse anche qui possiamo trovare un’analogia con quanto avviene nell’armonia negativa, gli andamenti melodici lineari ascendenti o discendenti assumono in M7 un andamento più circolare o a spirale.

Un esempio più elaborato di sviluppo M7 è il mio contrafact di Antropology dal titolo Antroposophy.

Ci sono due linee melodiche. Il tema del vibrafono, costruito su M7 del tema originario e il suo negativo suonato dal sax. I temi costruiti sulla sezione A sono uno il negativo dell’altro lì dove all’insieme basato sulla fondamentale sib si integra quello avente fondamentale lab con il rovesciamento speculare della melodia.

Anche la linea di basso e la struttura armonica dell’accompagnamento (di cui ho ipotizzato due versioni) è basata sempre sulla trasformazione M7 relativa.

L’armonia nei voicing del vibrafono contiene in sé entrambi gli insieme ed è dotata quindi di una sua simmetria interna.

La parte di basso e batteria è costruita secondo un principio di aumentazione circolare, lì dove ciascun quarto a rotazione viene aumentato di un ottavo:

La sezione B invece è costruita soltanto dalla trasformazione M7 relativa del tema, del basso e dell’armonia originaria con una modulazione metrica, dove su un tempo di 5/4 con una pulsazione di 4/4, creando un effetto di rallentamento.

Per l’accompagnamento ho ipotizzato due diverse linee di basso costruendo i voicing di vibrafono a partire dagli insiemi M7, tenendo conto anche del loro negativo nella sezione A (vedi score intero).

Scores completi:

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Appunti di multi e polimetria, multi e poliritmia

Il tema è complesso e articolato e tuttora vede diverse definizioni e interpretazioni a partire dalla distinzione tra ritmo e metro.

Ad es. troviamo in “Canone Infinito: lineamenti di teoria della musica” di Loris Azzaroni (Ed. CLUEB, 2001):

(..) non vi è accordo fra i teorici della musica: 1. netta separazione fra ritmo e metro; 2. presenza di momenti «forti» che ritornano a determinati intervalli di tempo rendendo percepibile una struttura accentuativa definibile come metro. Sul primo punto alcuni teorici sono dell’avviso che il metro sia una sorta di sottinsieme del ritmo, e non, come invece pensano altri, qualcosa di nettamente distinto da esso, o addirittura un riferimento implicito indispensabile alla percezione del ritmo;

e sempre sul tema dallo stesso autore:

L’irrisolta diatriba fra accentualisti, seguaci della Scuola di Solesmes e mensuralisti nell’interpretazione del canto gregoriano, la distribuzione delle durate su base quantitativa (durate lunghe e brevi) e non accentuativa nella produzione musicale della Scuola di Notre-Dame (modi ritmici), i concetti di perfezione e di gruppo mensurale come base dell’articolazione temporale dei repertori polifonici fino al XVI secolo (mensurazione), la tendenza a spezzare qualunque forma di prevedibile periodicità in molta musica dell’Otto e Novecento, sono solo alcuni esempi della complessità delle questioni che ruotano attorno ai concetti di ritmo e di metro. La situazione – pur entro certi limiti – risulta un po’ più chiara solo per il periodo che va dall’inizio del Seicento alla metà circa dell’Ottocento, se non altro perché l’accento musicale diviene un elemento di interpunzione, differenziazione e caratterizzazione del continuum sonoro tanto forte da porsi come riferimento imprescindibile sia sul versante compositivo che su quelli esecutivo e percettivo.

Qualche relativo chiarimento sul tema successivamente sempre dallo stesso autore:

Laddove in un complesso polifonico due o più delle voci costitutive siano articolate temporalmente secondo metri o ipermetri diversi, la struttura articolatoria globale presenta una combinazione sincronica di scansioni metriche diverse e talora contrastanti; la coesistenza simultanea (non diacronica!) di metri diversi si dice polimetria. Nella letteratura musicale di ogni tempo casi di questo genere sono praticamente infiniti: si pensi ad es. alla polifonia arsnovistica, del Quattrocento e del Cinquecento (cfr. ess. 2.33-34), al contrappunto bachiano, a certi contrasti metrici di epoca tardoclassica e romantica, alle complesse strutture polimetriche del primo Novecento e della musica contemporanea. In tutti questi casi la comprensione del metro è messa a dura prova: la regolarità, la «quadratura» metrica del periodo aureo del classicismo più che la norma sembra essere l’eccezione che conferma la regola.

In modo parallelo alla multimetria e alla polimetria (cfr. sopra), la multiritmia e la poliritmia si riferiscono alla presenza di gruppi ritmici diversi rispettivamente in un contesto monodico e polifonico. Nell’esempio 2.19a-b, tratto da Machault, seppure ad ampio raggio si è notato il ripetersi di un identico raggruppamento di durate (talea) per tutta la durata del tenor, pro- cedimento, questo, che va sotto il nome di isoritmia

Da questo possiamo derivare innanzitutto la differenza nei prefissi multi e poli, lì dove il primo definisce eventi diversi in successione, il secondo invece simultanei.

La differenza tra metro e ritmo invece sembra essere più complessa da definire, si veda in proposito

Se il metro è una successione di tempi configurata secondo un’alternanza di un tempo forte e un tempo debole (metro doppio), oppure secondo un’alternanza di un tempo forte, un tempo non accentato e un tempo debole (metro triplo), ciò significa che nella definizione di metro non entra direttamente il concetto di suddivisione dei tempi in sottounità, ossia la percezione del metro non dipende in prima istanza dal tipo di suddivisione interna dei singoli tempi; la diversità di suddivisione dei tempi in sottounità determina unicamente la tipologia delle unità metriche (a suddivisione binaria o ternaria) e, insieme alla durata di tali unità, entra nella nostra percezione del metro e nella valutazione delle sue uguaglianze e diversità, regolarità e irregolarità. Un metro che, per aggiunte successive di sottounità ai tempi che lo scandiscono, si offre come una successione di durate di impulsi costantemente variabili, verrà ancora percepito come metro, tutt’al più come metro irregolare. Un caso del genere si riscontra in Messiaen:

e sempre in seguito

impossibile poter arrivare ad una formulazione univoca e sufficientemente soddisfacente del concetto di ritmo musicale, compresa fra i due limiti di una formulazione estremamente rigida (del tipo: “Il ritmo musicale è l’articolazione temporale degli accenti”) e di una largamente onnicomprensiva (del genere: “Il ritmo è uno degli aspetti percepibili delle configurazioni del tempo musicale”

e ancora invece Nattiez1 sostiene che

il ritmo è caratterizzato soltanto da intervalli di durata fra gli eventi privi di altezza, intensità e timbro”

Cooper e Meyer nel loro celebre The Rhithmic Structure of Music2:

Il ritmo può essere definito come il modo in cui uno o più impulsi non accentati sono raggruppati in rapporto ad un impulso accentato

Per chiarire le differenze si introducono concetti più elaborati come “tempo fisico” e “tempo cronometrico”, si veda sotto ad es.:

Da quanto detto finora si evince che metro e ritmo (sia che li si voglia intendere come fenomeni autonomi benché intercorrelati, oppure come fenomeni tali per cui il metro è di per sé contenuto nel ritmo) caratterizzano due diversi aspetti del tempo musicale, che sono fra loro in rapporto simbiotico e dialettico: un aspetto temporale essenzialmente «meccanico», articolato all’interno della misura e dell’ipermisura in tutta la musica dall’epoca barocca a quella romantica, cui David Epstein si riferisce con il termine tempo cronometrico, e un aspetto denotante l’unicità organizzativa del tempo intrinseco ad ogni composizione, arricchito e qualificato dalle esperienze particolari entro cui si struttura, che Epstein vede come tempo integrale

Unità di misura del tempo cronometrico sono al primo livello l’impulso (o battito, beat), ed al secondo livello il metro, a sua volta organizzato e strutturato in impulsi; nella musica classico-romantica Epstein associa tali unità a qualcosa di dato a priori, di innato in un sistema che per una serie di convenzioni stilistiche è come preesistente alla composizione. L’unità di misura del primo livello del tempo integrale è invece la pulsazione (pulse), che Epstein vede come qualcosa che può corrispondere alla sensazione di insorgenza-enfasi-spegnimento della pulsazione nel sistema circolatorio o all’alternanza tensione-riposo nel ciclo respiratorio78; al secondo livello i pulses – che a differenza dei beats possono dilatare o comprimere il tempo musicale a seconda del grado di tensione e distensione interne al contesto specifico – si raggruppano in unità di maggiore ampiezza, che sono per lo- ro natura ritmiche e relazionano sequenze di impulsi, con modelli (patterns) ritmici specifici di ogni opera

tempo cronometrico

metro
unità minima: beat


enfasi: accento metrico

fattori determinanti: schema precompositivo, stabilito dalle convenzioni stili- stiche; queste conferiscono al metro determinate caratteristiche: metro a due e tre tempi, successione tempo forte-tempo debole, battere-levare, aspettativa di regolarità accentuativa

tempo integrale

ritmo
unità minima: pulse


enfasi: accento ritmico


fattori determinanti: contesto derivante dalle premesse compositive di ogni singola opera; successione accentuativa derivata da fattori che esulano dal ritmo in senso stretto: armonia, cadenze, pro- filo melodico, e così via

Se troviamo tanta e tale difficoltà nel definire i fenomeni ritmici nell’ambito della cultura musicale occidentale, dotata di un sofisticato substrato di analisi musicologica, difficile dipanare nel jazz questo groviglio.

Steve Coleman sostiene ad es.3:

(..) the western concepts of time signatures (including so called “common” and “odd time signatures”) largely do not exist and have no place in creating music. These concepts come from European art music and the concepts of M-Base are based primarily on music from Afrika and creative music of the Afrikan Diaspora (where in the last 76 years there has been a steady progression to use non- western concepts as a basis for the music). This music is unique primarily in the areas of spiritual, rhythmic and melodic development.

Il fatto, inoltre, che nel jazz, come in molte musiche di tradizione orale, la musica non sia mediata necessariamente da un codice intersemantico come quello della scrittura musicale, rende ancora più arduo stabilire le intenzioni del musicista e la percezione di un evento complesso temporalmente.

Possiamo quindi a mio parere, per semplicità, stabilire che la differenza tra metro e ritmo sia in un diverso grado di strutturazione interna della frase ritmica e che la pulsazione sia un concetto connettivo tra i due.

Come nella questione microtonale, anche riguardo alle figurazioni ritmiche nel jazz contemporaneo possiamo individuare due matrici di influenza: una etnica e una legata alla musica contemporanea.

Da un lato troviamo artisti come Steve Coleman che nell’elaborazione di schemi ritmici articolati si rifanno ad un’idea ciclica della percezione ritmica, metafora dei processi naturali. Coleman ha approfondito lo studio di diverse culture musicali extraeuropee, spesso attraverso residenze in Africa e Sud-Centroamerica, cercando di entrare in connessione diretta con queste tradizioni e trasferendone alcuni contenuti nella sua musica.

Al contrario artisti come il già citato Steve Lehman, che pur dichiara la sua matrice ritmica come afroamericana, nella sua musica manifesta diverse analogie con la multimetria della musica contemporanea oltre ad analogie con la concezione di livelli ritmici diversi sovrapposti (polimetria o polipulsazione) si pensi a “Vortex Temporum” dello spettralista Grisey. A questo si aggiungano i suoi studi in ambito delle scienze cognitive sulla percezione del ritmo.

In generale, tornando alla tesi di Erikson questi fenomeni rientrano, come la microtonalità, nell’idea di “indirection” e il senso di significare in modo allusivo, indiretto e metaforico della cultura africana:

Use of cross rhythms, polymeter, accenting weak beats, playing ahead of or behind the beat, playing straight eighths against a swing rhythm backdrop, etc.

Ho cercato di applicare questi principi ad alcune mie composizioni originali, nate spesso come un esercizio: Hyper Steps è contrafact di Giant Steps di John Coltrane, costruito sull’idea di attribuire a ogni accordo o battuta un tempo diverso in ordine crescente e decrescente da due a sei ottavi.

La distribuzione multimetrica avviene in modo asimmetrico rispetto alle funzioni armoniche, creando un effetto se non di rallentamento e accelerazione, visto che la pulsazione sottostante rimane costante, di allargamento e restringimento dello spazio armonico.

Da notare che attraverso questa costruzione multimetrica si creano delle interessanti simmetrie, delle vere e proprie forme ritmiche palindrome come da battuta 1 a 3 (5/8, 4/8; 5/8), da 6 a 9 (7/8, 2/8/, 7/8) e da 11 a 18 (con la presenza di tutte le figurazioni da 6/8 a 2/8 e vicevera). Per semplicità esecutiva ho raggruppato le misure consecutive di due e tre ottavi in una da cinque. La natura ritmica del brano è, a mio parere, stimolante per cercare all’interno di questa nota progressione armonica nuove e inattese soluzioni melodiche.

No Evidence, contrafact di Evidence di T. Monk (che a sua volta è contafact “Just you, just me”) è costruita secondo due principi diversi, uno ritmico e l’altro melodico. La costruzione della multiritmia (utilizzo questo termine invece di multimetria perché la struttura è fondata su frasi ritmiche mentre Hyper Steps su metri diversi in successione) avviene secondo il principio che gli accenti del tema originario rappresentano il battere di misure calcolate sulle distanze tra gli stessi, salvo qualche aggiustamento (le idee sono importanti ma poi vanno adattate ai fini estetici..).

Dal punto melodico invece è stato scritto un tema che mantiene le altezze della melodia originale, integrate da frasi di connessione. Da questo effetto di mascheramento per estensione melodica ha origine il titolo No-Evidence.

Il tema finale è costruito su progressive riduzioni melodiche al fine di svelare gradualmente la melodia originaria.

Ho scritto inoltre una seconda linea attribuendola al basso, ma può essere comunque utilizzata da altri strumenti durante l’esecuzione.

Gli accordi originali sono stati modificati non da un punto di vista funzionale, ma attraverso alcuni modal interchange, spesso legati agli insiemi di altezze originati dal materiale melodico utilizzato.



Titov è invece un mio brano di natura poliritmica dove si sovrappongono diverse figure. La prima, per esteso eseguita dal sax alla lettera C, ottenuta dalla rotazione di tre altezze (la, fa#, sol) in un ritmo di 7/8.


Questa frase viene eseguita nella sezione A in forma di hoquetus distribuita tra sax, vibrafono e basso.

Nella sezione B il vibrafono espone in solo la seconda figura (una serie di sei note che viene retrogradata nella seconda parte della sezione) costruita su un metro di 3/8.

Questi due ritmi sono eseguiti contemporaneamente dalla quinta misura della lettera C, entrambi retrogradati melodicamente, suonati alternativamente da sax e vibrafono.

Alla lettera F compare al vibrafono e poi alla batteria un nuovo ritmo, dal metro illusoriamente binario, divisibile in due semifrasi una di 12/8 e l’altra di 9/8.


Dalla lettera G, alla ripesa del tutti, gli strumenti alternano tra di loro questi tre ritmi improvvisando a partire dagli intervalli e dalle serie utilizzate.

Monoesatono è una composizione di Alessandro Fedrigo , melodicamente costruita su due insiemi esacordali complementari e ritmicamente basata su una poliritmia nella sezione A (batt. 7-8) di cinque ottavi su sei, la cui somma dà un tempo complessivo di 15/8. La batteria e il sax suonano il sei ottavi mentre il riff del basso scompone i quindici ottavi in un metro di cinque ottavi ripetuti sei volte, creando un effetto poliritmico.

Il B (misura 9 e 10) è costituito da un tempo di 7/8.

Elgotar Bengotar è un’altra interessante composizione di Alessandro Fedrigo costruita da un punto di vista armonico nella parte A con strutture intervallari di terze maggiori e minori e con un’idea polimetrica in cui tre figure diverse (tre, quattro e cinque ottavi ripetuti ciascuno quattro volte) vengono attribuite in modo asincrono tra di loro creando sostanzialmente un effetto di costante percezione di pulsazioni diverse sovrapposte, ma che hanno un punto d’incontro comune ogni 20/4.

sezione B richiama l’idea di Hyper Steps, con una successione decrescente da sei a due ottavi, e costruita da due insiemi di altezze complementari.

Partiture Complete:

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Cenni e riflessioni sull’uso della microtonalità nel jazz contemporaneo

Per quel che riguarda l’utilizzo della microtonalità nel jazz possiamo individuare due principali linee di influenza:

• una legata alla componente etnica e quindi a sistemi di intonazione e accordatura non occidentali

• una relativa alla musica classica occidentale e contemporanea 

Il jazz ha sempre avuto una significativa propensione a una certa elasticità riguardo all’intonazione di alcune altezze. Si pensi al blues, lì dove alcune note caratteristiche godono di una qualche indeterminatezza, in particolare terza maggiore-terza minore, quarta aumentata-quarta giusta. Secondo molti studiosi questo fenomeno ha radici lontane, reminiscenze nella cultura afroamericana di sistemi di intonazione diversi adattati a quello occidentale. 

A questo fattore storico-culturale possiamo aggiungere quello della propensione nel jazz all’ espressione di un suono individuale. In questo senso timbro e intonazione fanno parte di quei parametri rispetto ai quali il singolo gode della libertà di individuare soluzioni personali rispetto all’ideale estetico classico europeo, dove il musicista è formato per avere un timbro adatto all’esperienza orchestrale, e l’omogeneità va a discapito dell’originalità timbrica (o meglio, per essere più corretti, il margine di libertà creativa timbrica è maggiore).

Si pensi in questo senso ad artisti come Jackie McLean, che ha affermato in diverse interviste il suo “non essere intonato” come una precisa scelta espressiva, o, sempre per restare tra i sax alto, a Ornette Coleman e Eric Dolphy.

Inoltre tutta una serie di effetti (growl, glissati, wah-wah) confermano in questo senso una certa tendenza estetica a prescindere dalla precisione dalla perfetta intonazione anche nel jazz orchestrale (ad es. Mingus o Ellington) in favore di quella espressiva.

L’uso della microtonalità sembra rientrare quindi in una sfera di significato afferente al principio della pitch indirection, o, come sostiene Jeff D. Erickson, è espressione di un pensiero ellittico, ovvero “voler dire una cosa attraverso un’altra”:

A musical gesture that obscures its true intention by placing more emphasis on approach notes than target notes (metrically, dynamically, etc.) or other means of placing target pitches in a weak position.

e di seguito

An African American rhetorical strategy whereby the point is made through indirect means, such as innuendo

L’altra corrente di influenza microtonale nel jazz è invece legata all’ambito della musica colta europea. L’utilizzo della microtonalità nella musica occidentale è sempre stato presente sullo sfondo di tutta l’annosa riflessione  tra i diversi sistemi di intonazione fin dal rinascimento, e trova un grande impulso dalla musica elettrica ed elettronica nello scorso secolo.

Dalla musica concreta e gli esperimenti di Darmstadt degli anni ‘50 fino alle ricerche dell’IRCAM ancora oggi estremamente fertili, le nostre conoscenze riguardo alla natura fisico-acustica del suono hanno fatto da stimolo a diversi autori nella ricerca di sistemi di divisione dell’ottava alternativi o, come nello spettralismo, all’utilizzo dell’analisi dello spettro armonico come struttura fondante delle composizione da un punto di vista melodico e armonico, includendo quindi altezze non temperate. A questo va aggiunto lo sviluppo delle scienze cognitive e delle neuroscienze che ha ulteriormente esteso il campo della sperimentazione percettiva.

Proprio legato all’esperienza dello spettralismo Steve Lehman, che è stato allievo a Parigi del compositore Tristan Murail, trova terreno fertile nell’uso della microtonalità nella composizione e nell’improvvisazione da parte di questo musicista newyorkese.

Nella sua tesi di dottorato presso la Columbia University dal titolo “Liminality as a Framework for Composition: Rhythmic Thresholds, Spectral Harmonies and Afrological Improvisation” Lehman dichiara espressamente la tripla influenza di concetti e tecniche dello spettralismo, della musica afroamericana e delle scienze cognitive.

This paper will examine the ways in which involvement with both French spectral music and Afrological forms of improvisation has informed my current work as a composer. I present a brief overview of the major concerns and preoccupations of both musics as well as an account of the overlapping histories of spectral music and Afrological improvisation, with particular attention to the concepts of liminality and rhythmic thresholds in the light of recent music perception research. 

Il materiale melodico-armonico della composizione Echoes, analizzata nel trattato, è costruito ad es. sullo spettro armonico del vibrafono e contiene quindi altezze non temperate.

The harmonic language of Echoes is loosely based on the sound spectrum of a vibraphone, which produces a very clear sense of pitch despite the presence of some inharmonic partials, as well as a relatively loud 15th partial which sounds three octaves and a major seventh above the fundamental 

Come scrive il musicista italiano Umberto Tricca nella sua dissertazione su Lehman per il Conservatorio Cherubini di Firenze:

Infatti il E-1(41,2 Hz) del vibrafono, viene ribadito dal secondo armonico E- 2(82,4 Hz) suonato dal basso tuba e dal basso acustico, mentre il sax tenore intona il settimo armonico ovvero 1⁄4 di tono più calante rispetto la settima minore temperata (C 3⁄4 #), il sax Alto e trombone rispettivamente intonano il nono F# e il decimo armonico G#, e la tromba intona l’undicesimo armonico ovvero una quarta crescente A 1⁄4 #.

Va precisato che l’uso della microtonalità è applicato in alcune composizioni e improvvisazioni di Lehman, mentre in altri contesti non è presente, anche se il suo linguaggio personale sassofonistico sembra sempre esserne più o meno consapevolmente influenzato in particolare rispetto all’intonazione di alcune altezze. L’uso della microtonalità sembra principalmente essere quindi legato esteticamente a quelle composizioni riconducibili allo spettralismo, per in qualche modo “giustificarne” l’uso, mentre in altre composizioni e improvvisazioni, specialmente standard jazz, non vi è presenza di ricorso a questa tecnica. Lehman possiede comunque un ampio bagaglio di tecniche estese vicine al linguaggio della musica contemporanea, da alernative fingering a multiphonic, all’uso dell’elettronica.

Riguardo a influenze non occidentali il jazz contemporaneo ha incorporato nei propri linguaggi influenze di diverse culture. Ad esempio Rudresh Mahanthappa, Vijay Iyer, Rez Abbasi, musicisti statunitensi ma tutti di origine asiatica, hanno inserito nella loro musica elementi delle loro culture di origine. In particolare Mahanthappa, che per restare in tema ha registrato proprio con Steve Lehman un disco dal titolo “Dual Identity” (2010, Cleen Feed), utilizza scale e modi di origine extraeuropea con un ampio ricorso all’utilizzo di quarti di tono.

La microtonalità trova nel sassofono una interessante possibilità espressiva lì dove attraverso una tecnica di diteggiature particolari si possono ottenere sostanzialmente tutti i quarti di tono con esclusione, purtroppo di quello tra sol e sol diesis, alcune note del registro più grave, dal do diesis in giù, e di quello acuto e sovracuto, cui si può sopperire comunque in modo relativamente facile attraverso l’imboccatura. Esiste un’ampia letteratura in questo senso e alcuni titoli sono stati da me inseriti nella bibliografia.

Lehman utilizza frequentemente la microtonalità nell’improvvisazione con una logica e tecnica più riconducibile all’influenza contemporanea piuttosto che a quella etnica. Da notare che Lehman è stato in gioventù allievo, oltre che di Braxton, anche di Jackie McLean. Entrambi, per sua stessa ammissione, hanno avuto una decisa impronta sulla sua visione estetico-artistica.

Amir ElSaffar, musicista e compositore di Chicago, di origine irachena, ha sviluppato un sistema di applicazione del maqam alla strumentazione, al materiale melodico e a quello armonico del jazz.

Il maqam è un sistema di modalità utilizzato nella musica araba, legato a una prassi improvvisativa tramandata oralmente, con alcuni schemi e cellule fondamentali ricorrenti. Lì dove molti artisti che si sono ispirati a sonorità arabe hanno “occidentalizzato” il materiale melodico non ponendosi questioni riguardo all’intonazione, ElSaffar, che oltre la tromba suona il santur e canta, utilizza in maniera rigorosa i microtoni, attraverso diteggiature non convenzionali negli strumenti a fiato, e accordando pianoforte e strumenti a corde in modo funzionale ai modi del maqam.

Quando parliamo di maqam e musica araba ci riferiamo a un sistema musicale sviluppato in secoli e in un territorio estremamente vasto. Basti pensare alla molteplicità di diverse musiche europee, alcune poi a loro volta influenzate da quella araba, per capire che si tratta un argomento complesso da affrontare. Complesso e sofisticato; quella araba è una tradizione nella quale, come ci ricorda Sorce Keller in “Musica e Sociologia”, ci sono stati tramandati principalmente nomi e contenuti dei teorici della musica, piuttosto che di compositori o esecutori.

Il maqam in questione, che ricorda lo Jins Hijaz, in realtà deriva dalla tradizione della musica persiana, ed è entrato a far parte della cultura araba a partire della occupazione islamica della regione dell’antica Persia nel VII sec d.C. Si tratta qui del Dastgah Hemayoun, da cui il titolo del brano, simile al quinto grado di una scala armonica ascendente. Simile perché proprio il sesto grado di questa scala è aumentato di un quarto di tono, e posto a metà tra il sesto maggiore e minore che caratterizza la differenza tra scala melodica e armonica, e il settimo grado abbassato di un quarto di tono.

La scala risultante, come risulta dall’armatura in chiave dello stesso ElSaffar, può essere trascritta come re mi- fa+ sol la sib do, dove il simbolo “+” sta per “aumentato di un quarto di tono” e il “-” diminuito.

Tra re e mi- è presente quindi la distanza di tre quarti di tono, mentre tra mi- e fa+ quella di quattro quarti di tono, quindi un tono intero. Qui l’armatura in chiave caratterizzante il modo:

L’ambiguità tra minore melodica e armonica sembra risolversi da un punto di vista percettivo per la seconda. Suppongo che la nostra abitudine uditiva tenda a dare predominanza alla percezione di due intervalli di grandezza diversa, e quindi a ricondurre al semitono-seconda aumentata caratterizzante la scala armonica.

La modalità araba, analogamente a quella occidentale, è costruita dalla combinazione di due tetracordi, che possono però essere tra loro intercambiabili, in modo analogo a quanto succede con la scala minore melodica. Queste sostituzioni di tetracordo seguono delle regole precise legate all’andamento melodico e ritmico delle frasi musicali.

Il brano presenta una forma piuttosto complessa con una sezione, le prime sette misure, che ritorna più volte durante il brano e viene eseguita in modo omofonico dagli strumenti. Le altre sezioni della composizione vedono la presenza di pedali sui quali gli accompagnatori della melodia principale suonano liberamente intorno alla modalità.

Il brano Hemayoun è presente nel disco “Two Rivers” del 2007 edito da Pi Recordings, con la presenza non casuale al sax al fianco di El Saffar proprio di Mahanthappa.

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Alcune tecniche, materiali e linguaggi del jazz contemporaneo

Di seguito il pdf completo di partiture e la premessa della dissertazione che ho avuto il piacere di elaborare per il Conservatorio “F. Venezze” di Rovigo.

PDF Alcune tecniche, materiali e linguaggi del jazz contemporaneo

In questa tesi raccolgo elementi che hanno caratterizzato il mio percorso musicale in particolare dal 2009 ad oggi.

Nel 2014 sono stato in tour in Italia con Miles Okazaki, chitarrista newyorkese che ha a lungo suonato con Steve Coleman, e ho avuto modo di venire in contatto con alcuni contenuti ritmico- melodici come  pitch class set e cicli ritmici. 

Nel 2015 sono stato assistente di Steve Lehman in due occasioni: il seminario tenuto a Venezia nell’ambito del progetto Musicafoscari dell’ateneo universitario e a Bologna presso il Conservatorio Martini, dirigendo l’ensemble degli studenti, che si è poi esibito nell’ambito del Bologna Jazz Festival eseguendo composizioni di Lehman stesso. 

Sempre nel 2015 ho fatto da assistente ad Amir ElSaffar nell’ambito della residenza di dieci giorni tenuta sempre presso l’Ateneo ‘Ca Foscari, nella quale abbiamo lavorato esclusivamente su composizioni di ElSaffar, la modalità del maqam, la microtonalità e i modi ritmici della musica araba. Da questa esperienza è scaturita una collaborazione che si è concretizzata nella registrazione del cd “Saadif” (Hyper + Amir ElSaffar, 2016, nusica.org), cui sono seguiti tour e concerti in Italia.

Altri brani contenuti in questa tesi sono tratti da tre dei cinque cd incisi da XYQuartet (Spazio Angusto, Titov, No Evidence), altri ancora inediti come Elgotar Bengotar e Antroposophy.

Un percorso questo che ha seguito l’evoluzione almeno di una parte del linguaggio jazzistico che ho sentito affine e che mi ha consentito una ricerca stimolante dal punto di vista sociale oltre che artistico e creativo.

Il linguaggio del jazz, a mio parere, sta vivendo un processo di forte specializzazione allontanandosi, almeno apparentemente, dalla tradizione di matrice afroamericana; il repertorio degli standard e delle song è progressivamente scomparso dalle scalette di concerti e dischi; in sua vece troviamo composizioni per lo più originali, dalle più disparate influenze artistiche, dal pop alla contemporanea, dal folk all’elettronica, dalla sperimentazione al rock e al prog.

Possiamo forse oggi affermare che ci troviamo di fronte a una trasformazione del jazz, parafrasando la linguistica, da quella che forse non era una lingua unitaria, ma un insieme di dialetti facenti capo a un ceppo originario, a degli idioletti, costruzioni linguistiche individuali.

Va considerato comunque che il jazz è studiato e praticato ad ogni latitudine e che quindi è inevitabilmente, e si spera in modo fertile, rielaborato in funzione di tradizioni locali musicali, per quanto in un mondo globalizzato sia sempre più difficile riscontrare differenze, principalmente a livello di mercato musicale dominante, se non di creatività individuale, che spesso fatica a trovare il giusto riconoscimento.

Molti artisti di jazz contemporaneo sviluppano un percorso artistico che ricorre in modo post-postmoderno a tecniche estremamente sofisticate, per acquisire le quali non è sufficiente un generico percorso di studi ma un grande approfondimento. Per citare alcuni degli autori compresi in questa dissertazione cicli ritmici e movimenti simmetrici di Steve Coleman, multiritmie e spettralismo di Steve Lehman, microtonalità e maqam di Amir ElSaffar richiederebbero, se non lo studio di una vita, lunghi percorsi specialistici dedicati.

Non che nella storia del jazz non fossero presenti elaborazioni sofisticate e originali del linguaggio afroamericano ma in molta parte del jazz contemporaneo non si tratta più di stili e innovazioni ma di vere e proprie riformulazioni di concetti fondamentali degli elementi linguistico-musicali.

Altro elemento di grande innovazione è il ricorso alla tecnologia sia da un punto di vista performativo, con l’uso di effetti ed elettronica, sia da un punto di vista della scrittura e della composizione con software e programmi (ad es. scrittura con Sibelius e Finale, composizione con Orchyds o software come Logic e Cubase ) che influenzano inevitabilmente i processi creativi e consentono di progettare sonorità prima difficilmente realizzabili, analogamente a quello che è avvenuto nell’architettura con l’avvento dei programmi di grafica e la scoperta di nuovi materiali, che ha consentito, vedi ad es. Frank Gary, di immaginare e progettare nuove forme che sembrano sfidare tutte le regole e principi del passato. Con le tecnologie attuali si possono immaginare e realizzare architetture sonore estremamente ardite, che pongono anche alla musica acustica nuove frontiere di competenze esecutive. Tra i primi a realizzare esperienze di questo tipo possiamo annoverare Shaeffer, Xenakis, Stockhausen e, tra gli italiani, Berio e Maderna.

Sembrano lontane le epoche più o meno leggendarie degli head arrangements. Nondimeno, e questo consola rispetto alla prospettiva di una musica ipertecnologica, molti grandi artisti considerano ancora la trasmissione orale un elemento imprescindibile dell’assimilazione di nuove tecniche e il processo audiotattile e di biofeedback rimane un elemento cruciale nel percorso didattico.

Se apparentemente questi nuovi materiali sembrano essere distanti dal jazz tradizionale in realtà possiamo individuare relazioni profonde con le radici della musica afroamericana:

Ad es. il ricorso alla microtonalità è più vicino ai canti dei pigmei Aka o alla musica occidentale? E in relazione ad alcuni livelli di complessità ritmica ci sentiamo analogamente di collegare questi alla musica di matrice eurocolta o a quella africana? E l’analisi delle classi di insiemi non è forse essa stessa un tentativo enciclopedico di riorganizzazione di materiali armonico-melodici, compresi quelli del jazz, che sembrano sfuggire alle categorie dell’armonia funzionale?

In questo senso il jazz sembra animato da una doppia valenza: uno stretto rapporto con la tecnica e quindi con un’idea di modernità, lì dove il sapere della conoscenza di determinate nozioni è imprescindibile e funzionale all’espressione artistica, e dall’altra la consapevolezza della limitatezza della tecnica stessa, nella misura in cui ogni tecnica è funzionale all’espressione individuale.

Il processo imitation-assimilation-innovation, caro a tanti musicisti jazz, stabilisce un percorso che parte già da un concetto non astratto e assoluto di tecnica.

  • Il processo imitativo richiama la mimicry, il mimetismo, l’imitazione di altro da sé.
  • Assimilation sembra essere un processo di embodiment di natura più psicologica che logica.
  • Innovation è il processo di individuazione della propria personalità all’interno di una collettività.

Questo processo di apprendimento complessivamente sembra essere simile a quello linguistico, lì dove l’assimilazione di un linguaggio, si pensi a quello infantile e alle teorie di Piaget, procede attraverso diversi stadi di assimilazione e adattamento.

Se il linguaggio musicale del jazz presenta delle analogie con quello linguistico può tornarci utile quell’armamentario di figure retoriche utilizzate in musica tra il XVI e XVII definito “musica poetica” dove si stabiliva una stretta relazione tra linguaggio poetico e musicale. Passato in secondo piano nell’Ottocento, lì dove una visione romantica tende a far prevalere una visione “organicista” della costruzione musicale, l’uso di figure retoriche rimane comunque presente, sotteso e implicito nella musica fino alla contemporaneità: basti pensare a climax, tesi/antitesi, anastrofe (inversione), tutte figure retoriche tuttora presenti nella prassi musicale.

Jeff D. Erikson ha pubblicato una interessante dissertazione dal titolo “Signifying on the Greeks: the use of rethorical devices in jazz improvisation analysis”1, in cui i numerosi esempi tratti dalla retorica classica vengono arricchiti da quelli di origine africana, stabilendo così una serie di elementi utili all’analisi di tecniche e strumenti espressivi anche del jazz contemporaneo.

1“Signifying on the Greeks: the use of rethorical devices in jazz improvisation analysis”, Jeff D. Erikson, University of Illinois at Urbana-Champaign (2015)

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Classi di insiemi esacordali

Di tutte gli insiemi l’esacordale è quello che ha attirato maggiormente l’attenzione di musicisti e studiosi che si sono avvicinati alla serialità e alla teori degli insiemi applicata alle classi di altezze.


Tricordi, tetracordi, pentacordi ed eptacordi godono di un’ampia letteratura per lo più legata all’armonia funzionale. Ma nel contesto insiemistico l’insieme esacordale ha delle caratteristiche che ne fanno uno strumento tra i più interessanti: esso divide l’insieme cromatico in due parti uguali, ed è sottodivisibile in bicordi o tricordi. In ragione della divisione dell’ottava in due parti uguali molti esacordi godono di proprietà di simmetria e complementarietà che li rendono speciali e uno strumento interessante per la composizione.


Molti autori ne hanno quindi ampiamente trattato descrivendoli e classificandoli in modi diversi (Simbriger, Hauer, Rouse, Martino, Perle ad es.) e in base alle loro ricerche possiamo raggrupparli in gruppi aventi diverse caratteristiche in funzione della loro complementarietà:

  • esacordi combinabili per trasposizione con il proprio complementare
  • esacordi combinabili per inversione
  • esacordi combinabili per inversione retrograda
  • esacordi combinabili per retrogradazione

Gli 80 esacordi fondamentali possono quindi combinarsi tra loro in modo diverso e e questo ne fa, oltre che l’insieme più interessante, anche quello con il più alto grado di complessità.

Gli esacordi più noti sono il 6-35, ovvero la scala esatonale (0,2,4,6,8,10) e il 6-20, quella alterata (0,1,4,5,8,9). A questi possiamo aggiungere il 6-7, uno dei modi a trasposizione limitata di Messiaen , (0,1,2,6,7,8) e la scala blues 6-47 (0,3,5,6,7,10), nella sua forma primaria (012479), scala interessante al di là del valore storico nel jazz, perchè contiene elementi intervallari estremamente duttili, come testimoniato dal suo codice intervallare [233241]

In continuità con quanto visto nei precedenti articoli vorrei qui proporvi gli esacordi prodotti dall’unione di due tricordi appartenenti allo stesso insieme.
I tricordi in questione vengono definiti generatori


Ogni riga riporta prima i due tricordi generatori separati, nella battuta successiva l’esacordo ottenuto.
Per familiarizzare con i simboli utilizzati sono riportati il nome dei tricordi (3-1, 3-2, ecc) collegati dal simbolo U che significa “unione di insiemi” e l’esacordo risultante con il dettaglio delle altezze. La sigla Tn indica che l’insieme è stato trasportato del numero di semitoni indicati dal numero n. La sigla “i” indica l’inseme nella sua inversione.

Lì dove non c’è identità con quello originario a ciascun insieme esacordale succede nella riga sottostante l’esacordo complementare con i relativi tricordi generatori.

Ovviamente si possono ottenere insiemi esacordali dalla composizione di tricordi non dello stessa tipologia con uno schema che Martino e Rouse così definiscono:

  • 4 XXXX
  • 3+1 XXXY
  • 2+2 XXYY
  • 2+1+1 XXYZ
  • 1+1+1+1 XYWZ

Di seguito quindi lo schema quindi degli esacordi complementari ottenuti dagli insiemi generatori XXXX o XXYY.

Noterete sicuramente cose interessanti tra cui il fatto che tricordi diversi talvolta generano gli stessi esacordi. Dei 12 tricordi seguenti il tricordo 3-10 (accordo diminuito) è l’unico che non genera una serie dodecafonica completa; la sua serie completa è XXXY in unione con l’insieme 3-10

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Classi di altezze pentacordali

Tricordi e tetracordi, vedi qui precedente loro analisi, godono all’interno dell’insieme cromatico di uno speciale status. Il nostro sistema musicale, come quello che calcola mesi e ore, è costruito in Modulo12 quindi tri- e tetracordi possono dividere l’ottava in parti uguali e possono, combinati tra loro, generare serie dodecafoniche.
I pentacordi invece non possono che essere imperfetti da questo punto di vista. Per completare l’insieme cromatico devono essere uniti a un eptacordo. Il più semplice e noto esempio è rappresentato dalla scala maggiore diatonica di do maggiore, insieme 7-35 (0,2,4,5,7,9,11), che completata dall’insieme di tutti i cromatismi, insieme 5-35 (6,8,10,1,3), genera una scala pentatonica maggiore di fa#. La rappresentazione più immediata e nota è rappresentata dalla tastiera del pianoforte, cone sovrainsieme dei sottoinsiemi rappresentati dai tasti bianchi e neri.

Non per questo i pentacordi sono privi di aspetti interessanti, che ne fanno uno strumento utile dal punto di vista compositivo e improvvisativo.
Riporto in seguito una tavola di alcuni pentacordi degni di interesse, perché possiedono una proprietà importante: sono distribuiti e distanziati in modo omogeneo all’interno dell’ottava.


Scale, arpeggi e accordi più frequentemente usati godono di questa proprietà. È bene far notare che “distanze distribuite in modo omogeneo” non vuol significare necessariamente che le altezze sono poste in modo simmetrico o che sono equidistanti tra gli elementi, ma semplicemente che occupano l’ottava in maniera equilibrata.

Il pentacordo non può dividere quindi l’ottava in parti uguali, ma può generare alcuni insiemi dalle interessanti caratteristiche.
Questi insiemi nella loro forma fondamentale, compatta e contratta generano invece una volta estesi una serie di arpeggi/accordi che arrivano fino alla nona di estensione.
La tavola mostra qui alcune simmetrie interessanti: gli insiemi 5-17 e 5-34 nella loro versione estesa per terze sono perfettamente simmetrici generando rispettivamente un accordo minore con la settima maggiore e la nona giusta e un accordo di settima di dominante con la nona giusta.

Gli altri pentacordi esposti generano invece nella versione inversa tipologie di accordi diversi che possono essere messi quindi in relazione:

5-21: DbMaj7 #9 – i 5-21: EMaj7 #5 #9

5-25: Dmb5/9 – i 5-25: Fm7 b9

5-26: Dm b5#9 – i 5-26: EMaj7 #5 9

5-27 DbMaj 9 – i 5-27 Fm7 9

5-31: Cm dim 9 – i 5-31: Ab7 b9

Mi sembra interessante provare a esplorare le possibili per permutazioni di un pentacordo. Il loro numero complessivo è 5! (cinque fattoriale, ovvero 5x4x3x2x1=120).


Un modo interessante per calcolare e analizzare alcune delle possibili permutazioni è quello di considerare il pentacordo come l’unione di un bicordo e un tricordo.


In questo modo possiamo giovarci dell’analisi permutativa dei tricordi già fatta, oltre che immaginare i pentacordi come una serie dodecafonica generata dal tricordo armonizzata da un bicordo.

Prendendo in analisi il pentacordo 5-27, accordo maggiore settima/nona, abbiamo in sequenza le sue possibili combinazioni considerandolo un sovrinsieme di un tricordo e un bicordo.

Da battuta 21 a 24 invece la sovrapposizione tra il bicordo e il tricordo sviluppato nella sua successione dodecafonica.

Da battuta 25 in poi invece lo stesso processo sviluppato in maniera orizzontale invece che verticale.

Altro interessante processo consiste nel considerare ciascun pentacordo come l’unione di due tricordi con un elemento centrale in comune.

Nella figura sottostante sono illustrati nel primo rigo i quattro tricordi che generano diversamente combinati i pentacordi presentati a partire dal secondo rigo che sono quelli che abbiamo precedenemente analizzato.

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Classi di altezze, due esempi pratici

Lo studio delle classi di altezze è nato e si è sviluppato in un contesto musicale legato a dodecafonia e serialismo, lontano e in qualche modo in antitesi da quello della musica tonale.
Da un punto di vista astratto l’armonia tonale e funzionale può essere considerata comunque un caso particolare della teoria degli insiemi. La scala maggiore infatti corrisponde all’insieme 7-35 e tutti gli accordi in essa inclusi possono essere così considerati suoi sottoinsiemi, cosi come modi, scale e funzioni armoniche sue permutazioni, trasposizioni, inversioni.

Nulla comunque ci vieta di sperimentare l’utilizzo di diverse tecniche contemporaneamente e quindi voglio proporvi due esempi di melodie costruite su strutture armoniche tipiche del jazz. Uno standard, Indiana, sul quale C. Parker (anche se alcuni sostengono sia stato composto da Miles Davis) ha scritto Donna Lee e un rhythm changes, una forma derivata dalla composizione I’ve got rhythm di Gershwin, che al pari della struttura del blues è stata utilizzata come contrafact in moltissime composizioni.

Questa parafrasi di Donna Lee di Charlie Parker, contrafact di Indiana di Hanley/Ballard, è stata scritta utilizzando numerosi insiemi raggruppati per lo più secondo la logica della creazione di serie dodecafoniche, cioè come fossero tasselli uguali che completano in modo geometricamente uniforme il mosaico dell’insieme cromatico (vedi qui per approfondire).

Fig. 1

Qui il file audio:

Ecco invece l’analisi degli insiemi utilizzati:

Le serie dodecafoniche sono raggruppate nella linea posta al di sopra del pentagramma con il codice di ciascuna classe utilizzata. Sono invece cerchiati i singoli insiemi che compongono le diverse serie.

In questa mia composizione costruita su I’ve got rhythm di Gershwin invece si utilizzano principalmente due gruppi di insiemi. Il 3-3 nella prima sezione, mentre nel bridge il 4-27. Il noto tema originario è costruito nella sezione A dalle note F, G, Bb, C, corrispondente proprio all’insieme 4-27, idea ripresa dal tema del bridge.

Analizzando la melodia della composizione possiamo notare che è costruita usando l’insieme 3-3 (0,1,4) trasportato e invertito a mo’ di creazione di una serie dodecafonica (vedi ancora articolo citato precedentemente). Se consideriamo la prima nota di ciascun insieme si genera un tetracordo che è esattamente il tema originario, ovvero l’insieme 4-27.


Se in Donna Lee si è mantenuta la tessitura originaria con la sostituzione delle linee melodiche bop con quelle dodecafoniche, qui invece il processo è di natura integrativa rispetto a una linea melodica originaria più semplice. La scelta dell’insieme 3-3 è quindi determinata dal tetracordo originario del tema.
Il tema del vibrafono è ottenuto dalla trasposizione una terza maggiore verso il basso di quello del sax.

Nella sezione B invece viene utilizzata nel tema la serie dodecafonica ottenuta grazie alla trasposizione per terze del 4-27. La linea del basso rimane invariata rispetto all’originale, ma l’armonia segue l’andamento melodico degli insiemi del tema creando una tensione che ha il suo apice nella progressione per terze maggiori dell’ultima battuta del bridge, prima di pacificarsi nel Bb dell’ultima sezione A.
Ritmicamente ho strutturato gli insiemi su diverse versioni di scomposizioni ternarie (quarti, ottavi e sedicesimi disposti anche in terzine).

Lascio a voi la valutazione di quanto sia interessante questo materiale proposto da un punto di vista estetico. Sicuramente però questo processo di creazione melodica, e di riflesso armonica, nonostante l’apparente rigidità derivante dal processo logico-matematico, crea una grande elasticità e fluidità dell’andamento melodico, determinata dalla continua sensazione di vicinanza e lontananza creata dalla serie completa rispetto alla tonalità di base.

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Tricordi, Tetracordi, Serie Dodecafoniche e Maurits Cornelis Escher

Avete presente quelle incisioni di Escher in cui una figura ripetuta occupa lo spazio ma a ben vedere negli interstizi tra una e l’altra sorprendentemente ne appare una complementare che completa lo spazio rimanente? Sembra che l’artista olandese ebbe questa intuizione osservando l’Alhambra a Granada. Le raffigurazioni e le decorazioni di questo splendido edificio hanno delle caratteristiche ritmiche di incastri di figure diverse con una logica che sicuramente ha influenzato Escher come egli stesso scrisse nel suo studio Devisione regolare del piano del 1958.
La questione nasconde in realtà una profonda riflessione tra geometria e matematica sulle diverse operazioni attraverso le quali possiamo far coincidere delle figure geometriche con se stesse.

In maniera analoga possiamo costruire delle figure musicali che in modo complementare e geometrico occupino lo spazio cromatico partendo dall’utilizzo degli insiemi di classi di altezze.

Per chi non avesse pratica con la teoria degli insiemi applicata alle classi di altezze consiglio la lettura di questo articolo precedente.

In prima analisi prendiamo in considerazione i tricordi e la loro inversione fig 1, rappresentati sotto anche graficamente.


Alcuni di questi 3-1, 3-6, 3-8, 3-10 e 3-12 sono simmetrici rispetto all’altezza posta nel centro. Possiamo raggruppare tutti questi insiemi in un sovrainsieme che possiamo definire TS (tricordo-simmetrico, insieme di tutti i tricordi simmetrici rispetto all’altezza centrale). L’insieme 3-10 pur essendo dotato di simmetria, come si evince dalle tavole successive non compone una serie complementare dodecafonica.

gli altri 3-2, 3-3, 3-4, 3-5. 3-7, 3-9, 3-11 possono essere anche invertiti creando delle figure complementari per la creazione della serie dodecafonica. Definiremo questo sovrinsieme TI (tricordo invertito, insieme di tutti i tricordi che si completano attraverso il loro inverso).

I tricordi combinandosi con altre trasposizioni di sè stessi o del loro complementare generano tutte e dodici le altezze.


Queste in Fig 2 invece le serie dodecafoniche complete ottenibili dai tricordi in questione. Questa serie è rappresentabile graficamente così:

Da questa immagine risultano ancora più evidenti gli incastri ottenuti, tenendo conto che i tricordi in nero sono quelli in posizione fondamentale, in rosso le inversioni, in azzurro quelle altezze che superano l’ottava e che concludono il ciclo sovrapponendosi ai tricordi iniziali.

I tricordi che appartengono al sovrainsieme TS completano l’insieme cromatico senza necessità di combinarsi con inversioni perché sono strutturate sulla trasposizione per terza minore, che divide l’ottava in quattro parti uguali.
Il sovrainsieme TI, si divide il due sottoinsiemi. Il TI costruito su 3-2, 3-7 comprende successioni di tricordo e sua inversione, mentre le serie 3-3, 3-5, 3-11 vedono alternarsi due tricordi nella posizione fondamentale e due inversioni.
Queste diverse geometrie sono legate alla natura del singolo tricordo e si manifestano nell’analisi dei tetracordi generati dalle altezze dei quattro tricordi raggruppati per fondamentale, secondo e terzo grado di ogni singolo insieme.
Fig 3

Da questa analisi risultano delle serie dodecafoniche di cui alcune dividono perfettamente l’ottava in parti uguali (3-4, 3-6. 3-9 tramite arpeggio diminuito, il 3-3 genera il 4-27, il 3-12 in bizzarro modo circolare il 4-1), altre sono formate da due tetracordi uguali e uno che denominiamo “asse”. Interessante osservare come in questo caso i tetracordi non asse generino un octocordo simmetrico (ad es. il 3-2 una scala diminuita il 3-5 e il 3-11 due altre scale octofoniche simmetriche) il 3-2 e il 2-5 su un asse arpeggio diminuito, il 3-11 sull’asse insieme 4-23.

Tornando alla serie dodecafonica di tricordi complementari di Fig 2 l’utilizzo degli intervalli complementari o la trasposizione di ottava di alcune delle altezze del tricordo arricchisce ulteriormente la qualità melodica della serie e la sua trama ritmica e dinamica.
Fig 4 e 5

Possiamo effettuare altre operazioni per variare la nostra serie ottenuta dai tricordi. Una di queste è definita nel linguaggio degli insiemi e della topologia permutazione degli elementi, che ci consente di modificare in modo regolare l’ordine degli stessi. Fig 6



Le possibili ricombinazioni sono 3! (3 fattoriale, ovvero 1x2x3=6). La posizione fondamentale e la sua inversione, che abbiamo già visto in fig 2, sono completate dalle quattro rappresentate. Interessante osservare che la n 1 e la n 4 sembrano una sorta di aggiramento, dove la nota centrale e il punto di approdo e le altre note agli estremi dell’insieme sembrano delle note di approccio. Come abbiamo visto nella fig 3 la seconda nota di ogni tricordo in posizione fondamentale o inversa genera un tetracordo asse talvolta diverso dai due risultanti dalle altezze alle estremità. Le successioni che hanno come asse l’iniseme 4-26 sembrano quindi essere diversi approcci all’arpeggio diminuito.

Oltre all’insieme 3-2 ho analizzato le permutazioni dell’insieme 3-1, trascurato nelle figure precedenti per la sua ovvietà, ma che permutato risulta invece più interessante.

Per i tetracordi invece ecco gli insiemi che replicati compongono una serie completa
Fig 7


Ecco invece il loro sviluppo dodecafonico in Fig 8


Contrariamente ai tricordi, con l’esclusione del 3-11, non tutti i tetracordi generano una serie dodecafonica. Interessante osservare inoltre che tutti questi insiemi si intersecano sempre in una successione di terze maggiori, che divide l’ottava in tre sezioni identiche.

Ovviamente anche ai tetracordi possiamo applicare processi permutativi e di complementarietà.

Bibliografia:

Luigi Verdi, Organizzazione delle altezze nello spazio temperato, Diastema Analisi, Treviso

Maurits Cornelis Escher, Divisione regolare del piano

Nicola Fazzini, Insiemi e classi di altezze per l’analisi, la composizione e l’improvvisazione jazz

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Insiemi di classi di durate


La tradizione occidentale in materia di analisi e teoria degli aspetti melodici e armonici della musica è vastissima e approfondita. Minore invece è stato l’apporto teorico per quel che riguarda analisi e teoria del ritmo.
Le ragioni sono molteplici e in parte riconducibili all’idea radicata e diffusa in buona parte dell’occidente che essendo il ritmo legato a elementi fisici e corporei della percezione musicale sia un elemento proprio della musica popolare e quindi volgare, e, al contrario, che nella musica colta e in quella sacra, in quanto rivolte a elevare lo spirito, l’elemento ritmico sia secondario rispetto a quello melodico e armonico.

In molte tradizioni musicali extra-eropee il ritmo riveste invece un ruolo fondamentale e in molti casi è strettamente legato ad aspetti rituali e di sacralità. La musica del novecento ha attinto a piene mani a queste culture: musica popolare dell’est europa, musica indiana, musica araba, musica africana o afro-americana, ecc.

In generale anche nel jazz contemporaneo la sensazione è che poco di innovativo resti da scoprire in campo melodico e armonico, mentre molto resta da indagare in quello ritmico.
L’oggetto di questo articolo è se e come sia possibile, analogamente alle classi di altezze, utilizzare e ricondurre degli elementi ritmici a classi di durate.

Una prima sostanziale differenza tra altezze e durate è che se gli insiemi di altezze sono un numero finito (parliamo infatti di un sistema a modulo 12, come il totale cromatico a meno di non prendere in considerazioni suddivisioni microtonali di un’ottava) le classi di durata sono invece infinite essendo una distanza temporale sempre ulteriormente suddivisibile in un’unità più piccola.

È comunque possibile mutuare, utilizzare e applicare dalla teoria degli insiemi alcuni principi che possono essere utili allo scopo di definire meglio le qualità e le potenzialità di un insieme di durate.

Un interessante contributo è quello dato da Godfried Toussaint, ricercatore in scienze informatiche canadese, che in particolare nell’ambito della geometria computazionale e della matematica discreta ha evidenziato delle analogie tra strutture matematiche e ritmiche.

Innanzitutto abbiamo a disposizione degli strumenti grafici per rappresentare le strutture ritmiche.
Un primo utile strumento è il codice binario 0 e 1 nel quale l’1 rappresenta una pulsazione e lo 0 una pausa o la distanza tra una pulsazione e l’altra. Ad es. nella fig 1 la prima battuta (insieme E 2,3) Si potrebbe trascrivere come:
[101]
Una diversa trascrizione della stessa figura utilizzando l’1 con una x e
O zero con un punto:

[x.x]

Una visualizzazione grafica alternativa molto efficace è quella di rappresentare all’interno di un cerchio la figurazione ritmica, dividendo la circonferenza in pause e pulsazioni. Questo strumento riesce meglio a mettere in risalto l’aspetto ciclico di una figura ritmica.

Potremmo utilizzare questi strumenti per analizzare dei fenomeni di isomorfismo tra classi di altezze e ritmi. Una curiosa relazione esiste ad es. tra la scala maggiore e l’african bell pattern, ritmo proveniente dall’Africa occidentale, dove la successione di toni e semitoni concide perfettamente con quella delle durate del ritmo.
rappresentazione grafica: xx.x.xx.x.x.
insieme di altezze: 7-35 (0,1,3,5,6,8,10) [254361]
L’isomorfismo delle due forme è sicuramente una curiosa coincidenza. Stabilire delle analogie tra durate e intervalli può essere un’interessante strumento compositivo, già utilizzato dal compositore e teorico ucraino Joseph Schillinger.

L’algoritmo di Euclide invece è utilizzato per calcolare il massimo comune divisore tra due numeri interi. Toussaint ha analizzato come questo numero possa essere utilizzato per generare una sequenza ritmica, e di come molti dei ritmi di diverse tradizioni musicali del mondo possano essere ricondotti ad esso.

La Fig 1 riporta i ritmi citati da Toussaint con associati degli insiemi di altezze scelti arbitrariamente, al fine di avere una rappresentazione anche melodica del processo e mettere in risalto le diverse rotazioni. I ritmi seguenti sono associati a diverse tradizioni: musica cubana, bulgara, persiana, africana, sud e nordamericana.

Una delle principali proprietà di un insieme ritmico è la rotazione. Il numero delle rotazioni possibili è quello del metro complessivo meno una, esclusi gli insiemi che possiedono delle simmetrie e che possono essere quindi definiti “ritmi non retrogradabili”, utilizzando un termine coniato da Olivier Messiean, compositore che su questi ultimi e sui modi a trasposizioni limitate, quindi dotati di simmetria, ha costruito buona parte della sua musica.

Come per gli insiemi di altezze possiamo innanzitutto cercare di rappresentare una forma originaria partendo dall’organizzare i nostri inisemi in modo crescente.
Ad es il nostro insieme E(2,3) dove due sono i numeri delle pulsazioni presenti e tre è il nostro metro è rappresentabile progressivamente come (1,1,0), dove i numeri indicano le singole pulsazioni in questo caso due da un ottavo e una pausa.
Possiamo ora rappresentare il numero dei valori presenti e in questo caso sarà [1,1,0]: il primo rappresenta l’ottavo il secondo le pulsazioni da due ottavi, il terzo quelle da tre. Ovviamente essendo di fronte come detto precedentemente a un sistema non finito rispetto a quello delle classi di altezze ci confrontiamo con un sistema di codifica che non può che rappresentare dei numeri che danno origine a frazioni in funzione del ritmo espresso all’interno di un singolo metro

Una caratteristica interessante che unisce sia gli insiemi ritmici che quelli di altezze è quello dell’evenness, ovvero dell’uniformità con la quale gli elementi sono posizionati all’interno di un tempo, così come in una scala o un accordo. Gli insiemi ritmici o melodici che noi utilizziamo con più frequenza sono quelli che sono distribuiti in modo più regolare nello spazio o nel tempo.

Altra caratteristica di molti insiemi ritmici è la rhythm oddity, definibile come una qualità appartenente a molti dei ritmi più diffusi al mondo dove la distribuzione delle pulsazioni non divide mai il ritmo in due sezioni di ugual misura.

Bibliografia

The Geometry of Musical Rhythm: What Makes a “Good” Rhythm Good?: Godfried Toussaint, CRC Press, USA

The Schillinger System of Musical Composition, Joseph Schillinger, C. Fischer, Inc. (New York)

The Technique of my Musical Language, Olivier Messiaen, Alphonse Leduc, Paris

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Movimenti circolari: alcuni esempi e affinità con scale simmetriche

In questi articolo abbiamo visto come una sequenza di due tipologie di intervalli in successione possa generare degli piccole frasi o nuclei melodici che estesi si inanellano in modo peculiare a seconda delle caratteristiche degli intervalli selezionati.

Abbiamo anche visto che questa successione intervallare è rappresentabile in forma vettoriale e che il primo intervallo è definito caratterizante, il secondo traspositore.

Per meglio capire la differenza tra la funzione di questi due passaggi possiamo analizzare i due casi in cui ad es. l’intervallo vettore sia prima caratterizzante e poi traspositore.
Attraverso questa analisi emergeranno alcune interessanti differenze.

Nel primo caso quindi combineremo il nostro intervallo caratterizzante di terza minore con gli altri quattro (ma ovviamente si può procedere in estensione fino all’ottava) escludendo la combinazione con la terza minore traspositrice, perchè rappresenta un caso a sè stante (fig. 1)

Fig. 1

La terza minore caratterizzante combinata con la seconda minore traspositrice (fig. 1 a) genera un insieme cromatico di sei altezze che si muove secondo la regola dell’intervallo traspositore moltiplicato per due (vedi sempre articolo sopra citato), in questo caso generando una seconda maggiore e una successione di anelli che si muove per tono.

Nel caso della seconda maggiore traspositrice (fig. 1b) si genera un nucleo minore 0,2,3,5 e un interessante 0,2,3,4,5,7, nella sua combinazione completa, che attraverso la generazione di anelli concentrici con progressione di terza maggiore genera una sonorità che si muove intorno a un frammento di un modo minore.

Per capire e interpretare i codici degli insiemi di altezze qui e in seguito citati rimando a questo articolo:

Nel caso della terza maggiore intervallo traspositore (fig. 1 c) si genera un insieme 0,3,4,7 con la caratteristica della compresenza sia di una terza maggiore che di una minore e nella sua estensione più ampia 0,1,4,5,8,9, ovvero una scala alterata.

Nel caso di una quarta giusta intervallo traspositore (fig.1 d) si genera un insieme 0,3,5,8, ovvero un accordo minore settima e nella sua estensione genera due accordi minori settima a distanza di quarta.

Nel caso di una quarta aumentata (fig 1 e) si genera un accordo diminuito anche nella sua estensione in forma di anello, ovviamente per la peculiarità dell’intervallo di tritono che tende a generare forme speculari, dividendo l’ottava in due parti eguali.

Nel caso in cui invece la terza minore abbia una funzione di intervallo traspositore la faccenda cambia completamente (fig. 2).

Come emerge evidentemente con qualsiasi intervallo determinante essa sia combinata esso genera sottoinsiemi di scale diminuite.

Fig.2

Possiamo quindi dedurre in questo caso specifico che mentre la terza minore come intervallo caratterizzante genera una serie di combinazioni di insiemi diversi, nella sua funzione traspositrice genera insiemi riconducibili a un sottoinsieme unico e a un colore melodico-armonico ben determinato, ovvero quello della scala ottofonica diminuita.
Risalta quindi da un lato l’importanza dell’intervallo traspositore rispetto a quello caratterizzante, dall’altro il ruolo cruciale dell’intervallo della terza minore nell’insieme diminuito, evidenziato sia dalla simmetria delle cellule che compongono l’insieme, sia dal suo andamento che dal suo codice intervallare 8-28 (0,1,3,4,6,7,9,10) [448444].

Fig. 3

Se prendiamo in analisi il processo generato dall’intervallo traspositore terza maggiore (fig. 3) vedremo invece come questo crei una serie di sottoinsiemi invece riconducibili alla scala aumentata, o meglio all’insieme 6-20 (0,1,4,5,8,9) [303630] e a quella esatonale, insieme 6-35 (0,2,4,6,8,10) [060603].

La natura intervallare dei tre insiemi 8-28, 6-20 e 6-35 mette in evidenza il comportamento delle catene intervallari analizzate. L’insieme 8-28, scala diminuita, contiene tutti gli intervalli senza esclusione e questo dato spiega cosi perché tutte le combinazioni a intervallo traspositore terza minore generino sottoinsiemi ad essa riconducibili.
Confrontando il comportamento della terza maggiore come intervallo traspositore con il codice intervallare della scala aumentata risulta che essendo zero il valore della seconda maggiore e dalla quarta aumentata tale combinazione genera invece una scala a toni interi. Il codice della scala a toni interi riporta invece la cifra zero in corrispondenza di semitono, terza minore, quarta giusta e quindi in corrispondenza di questi valori la terza maggiore genera un insieme riconducibile alla scala alterata.
Interessante il confronto tra le due scale esatonali precedenti, che pur sembrando diverse l’una dall’altra hanno in comune, oltre al numero complessivo delle altezze che le compongono, tre note che generano un accordo aumentato 0,4,8 e la cifra 6 nel codice intervallare relativo alla terza maggiore, oltre che questa sorta di complementarietà intervallare evidenziata in precedenza.

Il codice intervallare si rivela essere uno strumento utile a capire non solo quali intervalli compaiono in un insieme ma anche quali possono essere combinati tra loro per generare un determinato insieme.

Proseguendo nell’analisi con un intervallo traspositore di seconda minore abbinato agli altri intervalli invece si generano sottoinsiemi riconducibili a un insieme cromatico.

La quarta giusta invece per la sua caratteristica di coprire in successione il totale delle altezze crea anch’essa un insieme cromatico.

La quarta aumentata invece merita un discorso a parte. Vista la sua simmetria simmetria non genera delle progressioni ma crea sempre e soltanto degli insiemi di quattro elementi che si succedono invertiti per tritono.
Con intervallo traspositore tritono quello caratteristico assume una certa rilevanza, determinando la natura dell’insieme generato, o meglio caratterizzando la distanza a cui si pongono i due tritoni generati dal circolo.

In conclusione i movimenti circolari per la loro natura di simmetria sono strettamente legati alle scale simmetriche e attraverso la loro analisi intervallare possiamo meglio capirne le relazioni e trovare quali intervalli generino una volta combinati delle successioni comprese o meno in queste scale.

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